venerdì 9 maggio 2014

Perché vogliamo case per abitare e non strutture per viverci

Ci sono differenze che non così sottili. Eppure ancora sembrano invisibili.
Nessuno (chieditelo al volo, tu che stai leggendo!!)  vorrebbe vivere in un luogo in cui l’orario in cui ti alzi o mangi, la scansione della giornata, i vestiti che indossi … sono definiti dagli orari delle pulizie o dall’arrivo del furgoncino con il cibo (preparato chissà dove… e non scelto!).
Nessuno vorrebbe stare, per 30 o 40 anni della sua vita, in un edificio con altre 20/30 persone, dove le stanze  sono tutte grandi ed  i corridoi lunghi. Dove ci sono spazi in cui stai di giorno e spazi in cui stai di notte. Dove non possiedi oggetti personali.
Sappiamo tutti il valore di queste differenze: mangiare intorno al tavolo in 8, 10 persone, non è come mangiare in un refettorio con altri 40. Sintonizzare la propria vita e le proprie scelte con altre 8,10 persone è più semplice che farlo con altre 40.
Sappiamo che i numeri e le dimensioni contano, quando di tratta di vivere. E noi abbiamo bisogno di spazi definiti, di autonomia nel muoverci in spazi che si sono familiari, di abitudini personali ed ogni tanto anche di eccezionalità. Vogliamo condividere esperienze piacevoli, non ritmi organizzativi.
Ed allora, è  così difficile capire perché stiamo insistendo così tanto perché la Regione Marche continui a puntare su servizi di piccole dimensioni e non su strutture con nuclei di 20+20+20 persone? C’è qualcuno là fuori che vorrebbe farsi determinare la sua quotidianità dai principi dell’economia di scala?
Ma è davvero soltanto una questione economica, oppure sta ancora funzionando l’idea (indicibile!) che poi in fondo …. son disabili …. già dovrebbero ringraziare …. sono un costo per la società….e poi tutto dipende dalle persone che ci lavorano. No. Le persone che ci lavorano sono esattamente nelle stesse condizioni delle persone di cui si occupano: spersonalizzate da una routine basata su minutaggi e rese automatiche da un contesto che non permette un incontro reale con l’altra persona. Il regolare contratto di lavoro non basta. Tocca tornare a mettere in discussione, anche da lavoratori, il sistema dei servizi ed il modello a cui fanno riferimento.

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